venerdì 25 gennaio 2013

Daria Bignardi è troppo invasiva


A proposito della nuova edizione de Le Invasioni barbariche mi trovo piuttosto in disaccordo rispetto all'opinione espressa oggi sul Corriere da Aldo Grasso. A mio parere il programma nella sua nuova formula non funziona non tanto perché la presentatrice si senta ormai troppo scrittrice nè perché sia stata troppo morbida in alcune sue interviste. Il format non funziona per un motivo semplice: Daria Bignardi non è più una brava intervistatrice. Il suo approccio all'ospite appare sempre sbagliato; talvolta troppo morbido e accondiscendente, talvolta troppo distaccato e duro sembra non trovare mai una propria cifra stilistica. Con i tre giudici di Masterchef si fa prevaricare dalle domande incalzanti di Bastianich col quale praticamente inverte i ruoli; con Renzi ripete per 5 volte la stessa domanda formulandola in modo diverso senza ottenere la risposta che voleva dando così l'impressione di avere una scaletta molto rigida e di non sapere come andare avanti se le risposte che arrivano non sono quelle attese. Ma il peggio di sè, a mio parere, lo dà nell'intervista a Tiziano Ferro. Alle prime domande sulla sua storia d'amore finita sembrava Giovanni di Aldo, Giovanni e Giacomo in Tre uomini e una gamba, quando insiste con Marina Massironi per sapere se è il suo fidanzato che l'ha lasciata; ci mancava che gli chiedesse se l'aveva tradito col suo migliore amico! Mette in difficoltà l'intervistato andando a scavare eccessivamente in fatti del tutto privati dei quali tra l'altro non ce ne importava proprio nulla. A un certo punto è proprio Ferro che le dice "basta con questo gioco al massacro". 


Insomma credo che per imparare a fare bene le interviste Daria Bignardi dovrebbe guardare ai grandi del passato come Enzo Biagi, oppure ai mostri sacri dell'intervista ironica come David Letterman e al di là di tutto cercare di dare al programma una cifra stilistica un po' più precisa e meno ondivaga. 

mercoledì 9 gennaio 2013

Non solo Masterchef - Vito con i suoi

Dato per assodato che il genere televisivo più seguito e prodotto attualmente è il Food show (o come si diceva una volta "il programma di cucina") e che il suo miglior esponente resta Masterchef, vorrei qui segnalare quella che ritengo una vera e propria chicca. C'è un programma sul canale Gambero Rosso (Sky 411) che si chiama "Vito con i suoi". I protagonisti sono il comico bolognese Vito (al secolo Stefano Bicocchi) e suo padre. Il programma è molto semplice: i due presentano una o al massimo due ricette per puntata e le cucinano insieme. Le cose che rendono questo programma interessante sono la semplicità della presentazione e della messa in scena, le genuinità che i protagonisti riescono a trasmettere e quel sapore di antico, di tradizione, di famiglia che ormai è sempre più raro. La simpatia del rapporto di Vito con il padre, le frasi in dialetto che si tenta di tradurre, l'evocazione del severo giudizio della madre presente soltanto in fotografia contribuiscono poi a donare un sorriso a chi guarda il programma. Un'altra particolarità è che le ricette che ci vengono proposte appartengono si alla tradizione bolognese/emiliana, ma soprattutto appartengono alla tradizione famigliare di Vito. E' questa la vera chiave del successo del programma, ovvero una famiglia come potrebbe essere quella dei nostri padri, dei nostri nonni, che apre le porte della propria cucina e ci fa entrare come ospiti graditi, una tradizione culinaria privata che viene tramandata ai figli e ai nipoti che altrimenti a fatica saprebbero che la pasta si può fare anche in casa, che i piatti per venire bene hanno bisogno di cura e soprattutto di tempo, questo maledetto tempo che sembra sempre sfuggirci e che invece bisogna ritrovare anche per cucinare, o quanto meno per dare un'occhiata a questo buon programma televisivo.

Ecco il link del programma per avere informazioni più dettagliate: http://www.gamberorosso.it/index.php?option=com_k2&view=item&id=330143:vito-con-i-suoi&lang=it

martedì 8 gennaio 2013

La regola del silenzio

L'ultimo film di Redford è come spesso accade per questo regista un film abbastanza lento nonostante si fosse presentato come un thriller in stile fuga/inseguimento. Personalmente il film non mi è dispiaciuto anche se poi quando le luci si riaccendono ti rimangono nella testa alcuni elementi della trama che non tornano, alcuni tasselli che non sono al posto giusto. Innanzitutto c'è una certa confusione sull'importanza delle varie linee narrative; le due principali, ovvero quella del fuggiasco Redford e quella del giornalista LaBeouf, sembrano avere entrambe la stessa importanza, ma entrambe alla fine finiscono senza alcun colpo di scena particolare, quasi nell'anonimato. Soprattutto la storia del giovane giornalista assume i contorni della favoletta perchè non rispetta alcuna logica legata al realismo. Abbiamo infatti un giovane giornalista di un piccolo quotidiano locale che scopre dei terroristi che si nascondevano tranquillamente da più di 30 anni, fa domande e ottiene risposte da tutti neanche fosse un agente dell'FBI, diventa chissà perchè l'unico depositario delle verità dei vari protagonisti e poi alla fine si trova di fronte ad una scelta del tutto banale che ci viene presentata come se fosse il più grave dei dilemmi etici. Insomma proprio non funziona, soprattutto per il finale, questo percorso compiuto dal giovane giornalista alla ricerca di una verità che gli viene sempre e senza alcun motivo offerta su un vassoio d'argento. 
Più interessanti risultano alla fine le riflessioni che il regista vuole fare sul terrorismo, sul pentimento, sul rimorso, sul perdono. A noi italiani che abbiamo conosciuto la stagione del terorrismo dovrebbero interessare questo argomento. Quanto a lungo durano le colpe? E' giusto a volte perdonare o provare a  capire? Domande interessanti sulle quali Redford riflette nei momenti più lenti e noiosi del film che però alla fine diventano gli unici un po' stimolanti.