giovedì 19 maggio 2011

Nuovi linguaggi televisivi - Il testimone

Nuovi linguaggi televisivi sono ancora possibili. E non solo sulle pay-tv. Da diverso tempo avevamo tutti la sensazione che gli unici che potessero permettersi la sperimentazione di nuovi linguaggi, nuove modalità di messa in scena televisiva, fossero i programmi realizzati su Sky, destinati per nascita a nicchie di pubblico ben precise e per questo più libere da vincoli di audience, pubblicità ecc...
La sensazione è pressoché vera, ma ci sono alcune importanti eccezioni che secondo me meritano di essere citate.
La prima è rappresentata da "Il testimone", programma in onda su MTV e condotto da Pif. Ci sono almeno tre elementi che a mio parere sono allo stesso tempo vincenti ed innovativi:

1) Pif - Il conduttore di questo programma si pone proprio come dice il titolo stesso nelle condizioni di testimone di eventi, storie, persone e le riporta al pubblico in uno scambio alla pari. Lui scopre insieme allo spettatore le storie che ci vengono mostrate, con noi si stupisce, si indigna, si diverte. In questa comunicazione "peer to peer" tra conduttore e spettatori risiede a mio parere il primo punto vincente de "Il testimone";

2) Riprese e montaggio - Strettamente connesso al primo punto troviamo uno stile di riprese del tutto inusuale per la nostra televisione. Pif si aggira con una telecamera amatoriale e non si preoccupa di effettuare riprese mosse, sfocate, con audio scadente. Questa scelta va nella stessa direzione di cui parlavo prima, rende tutto il programma più simile a noi. Pif, che evidentemente non è un cameraman, riprende ciò che ci vuole mostrare proprio come la maggior parte di noi riprenderebbero quella stessa cosa, cioè con uno stile che potremmo definire da "filmino delle vacanze";

3) Storie e narrazione - Non può esserci a mio avviso una trasmissione di successo senza che vi sia alla base una narrazione solida e ben costruita. I racconti di Pif (perchè di racconti veri e propri si tratta) sono quasi sempre caratterizzati da una circolarità della storia che racchiude come in un puzzle perfetto tutti i pezzi necessari per vivere la vicenda che ci viene raccontata: lo spettatore ride, riflette, si commuove e alla fine, quando spegne la tv, qualcosa in lui è cambiato. Proprio come quando chiudiamo un buon libro, o usciamo dal cinema, noi non siamo più gli stessi di quando eravamo entrati o di quando avevamo aperto il libro. Se la narrazione è buona non solo ci sentiamo diversi, ma sentiamo anche di aver appreso qualcosa in più; non necessariamente conoscenze, ma anche e soprattutto emozioni, sentimenti, pensieri.

venerdì 6 maggio 2011

Vivere (bene) anche senza Facebook


Da più di un anno ho deciso di chiudere il mio account Facebook. Ne ho aperto uno nuovo poche settimane fa soltanto per comunicare con alcuni miei studenti che pare non abbiano altri strumenti a disposizione. Di fatto non utilizzo più il social network e devo ammettere che vivo meglio. Chiariamo subito che non mi schiero affatto tra gli "apocalittici" nei confronti dei nuovi media, tanto più che ne sto parlando su un blog. Resto convinto però che, con l'utilizzo che la maggior parte delle persone (non solo teenager) fa di Facebook siano più i danni che i vantaggi. Pochi giorni fa un servizio delle Iene ha dimostrato che togliendo la possibilità ad alcuni adolescenti di andare su Fb e di scrivere sms si ottengano due risultati: da un lato si assistono a reazione che hanno molto a che fare con le crisi d'astinenza da droghe (ansia, depressione...) e dall'altro si notano col passare dei giorni effetti positivi per esempio sulla capacità di concentrazione dei ragazzi.
E' evidente che ormai la socialità mediata di Facebook e degli altri social network abbia sostituito la socialità reale dell'incontro faccia a faccia, così come quella dell'sms abbia sostituito quella della telefonata voce a voce. Io penso che la ricerca spasmodica di amici online denoti una grande e preoccupante solitudine di fondo e che abbia reso soprattutto gli adolescenti incapaci di intrattenere relazioni sociali "vere", con ovvi danni sulla capacità di integrarsi in gruppi (classe, squadra sportiva, ufficio...).
Per quanto mi riguarda ritengo che l'attività educativa dei genitori e degli insegnanti debba andare in una direzione nella quale si riesca a riportare l'uso dei social network in un ambito diverso. L'utilità e la semplicità di un certo tipo di comunicazione non devono essere negate, ma quando si hanno più amici su Facebook che nella vita reale bisogna iniziare a preoccuparsi davvero.

Si può ancora parlare di televisione in Italia?

Dopo il periodo delle origini, 1954-1960, durante il quale le preoccupazioni degli intellettuali e degli accademici erano dedicate soprattutto ai possibili effetti sociali del nuovo mezzo televisivo, c'è stato un periodo, riconducibile agli anni Sessanta, nel quale molti studiosi hanno dato grandi contributi all'analisi del mezzo che è stato scandagliato nella sua più profonda essenza linguistica di medium di massa da grandi nomi della cultura italiana come Umberto Eco, Alberto Abruzzese Francesco Alberoni. Ad un certo punto però qualcosa si è rotto, o per lo meno è intervenuto un elemento di disturbo: la politica. Ovviamente non vogliamo sostenere che chi parla, scrive, analizza il mezzo televisivo non debba occuparsi anche dei suoi aspetti politici, amministrativi ed economici. C'è la consapevolezza che la tv abbia rappresentato sempre di più nel corso della storia anche interessi economici e politici e che sia diventata un vero e proprio centro di potere. Era quindi necessario che anche il dibattito accademico se ne accorgesse e si occupasse di certe tematiche. Il problema si pone nel momento in cui il grande dibattito culturale sui mezzi di informazione sembra essersi arrestato (Monteleone, 1992, p.521) e le ingerenze dei partiti aprono un grande vuoto nell'esercizio delle grandi idee (Ibidem). Per un lungo periodo quasi più nessuno riesce ad occuparsi di televisione senza rimandare il proprio discorso alle vicende politiche del Paese. E la situazione si aggrava seguendo tre snodi temporali fondamentali: la riforma della Rai del 1975, la legge Mammì del 1990 e la discesa in politica di Berlusconi nel 1994.

Nel tentativo di garantire maggiore pluralismo e democraticità all'azienda, la riforma della Rai finisce per instaurare un meccanismo perverso legato alla pratica dell'occupazione di posti e spazi di potere (Sorice, 2002, p.111) in funzione di interessi di parte e di partiti, meccanismo che passa alla storia col termine di “lottizzazione”. Questa situazione lega a doppio filo il principale broadcaster italiano agli andamenti politici obbligando così gli analisti e gli studiosi della tv ad avere uno sguardo sempre influenzato dall'incombente presenza dei partiti che, solamente in teoria, non dovrebbero avere nulla a che vedere con i testi televisivi.

Il secondo snodo avviene con la legge Mammì del 1990, una legge volta a regolamentare il sistema radiotelevisivo italiano che sancisce e legittima il “duopolio imperfetto” Rai-Fininvest. Questa legge di fatto amplifica quall'anomalia che già era in atto dopo la riforma del 1975 e che da peculiarità del sistema radiotelevisivo si trasferisce anche nel dibattito accademico.

Il terzo e definitivo snodo avviene soltanto qualche anno più tardi, nel 1994, con l'ingresso in politica del proprietario di Fininvest, Silvio Berlusconi. La particolarità del sistema italiano diventa così ancora più singolare e questa somma di tre anomalie provocano effetti devastanti anche nell'approccio degli studiosi e degli intellettuali al mezzo. In un contesto in cui già tutto era politicizzato interviene a complicare ulteriormente la situazione l'anomalia berlusconiana. Infatti dal 1994 in poi la quasi totalità dei libri (con rare e già citate eccezioni come la storia di Grasso) che tratta tematiche legate alla tv italiana non può prescindere dal parlare di Berlusconi e della distorsione del sistema che il suo impegno politico comporta. Lungi da questa analisi entrare nel merito di discorsi politici che non ci competono, resta però l'impressione, estremizzando un po' i concetti, che mentre il mondo va avanti nel nostro Paese tutto si sia fermato. Si ha cioè la sensazione che mentre noi discutiamo da ormai sedici anni dell'opportunità che Berlusconi venda le sue televisioni, negli altri Paese la ricerca accademica sul medium sia andata molto avanti. Mentre noi guardiamo la tv sempre attraverso la lente d'ingrandimento della politica avvengono rivoluzioni tecnologiche epocali (alta definizione, 3D), cambiano i linguaggi e i formati, le trasmissioni e i canali attraverso cui trasmetterle. L'allarme lanciato da Grasso nella sua storia della televisione è valido più che mai. Come sottolinea il critico televisivo del Corriere «la maggior parte degli scritti sulla televisione ha quasi sempre privilegiato gli aspetti amministrativi, economici, istituzionali: serrate analisi sui partiti al potere, stringenti interrogatori sui «modi di produzione», minuziosi atti d'accusa sul ruolo della programmazione. Testi interessanti […] ma prigionieri di una dimenticanza: i programmi» (Grasso, 2004, p.10). Grasso scrive utilizzando il passato prossimo, noi constatiamo che la situazione non è cambiata ed è, se possibile, peggiorata ulteriormente. E se non si potrà rinunciare all'elemento politico nelle analisi sulla tv, l'auspicio è che comunque si smetta di rinunciare alla discussione sui programmi, sui linguaggi e sui contenuti della televisione.